Racconti in città/La voce della gioia
La voce della gioia
Del passato ricordava poco o niente.
Immagini frammentarie, più che altro.
Più che ricordarlo, il passato se lo sentiva ancora addosso, come i calcinacci che l’avevano ricoperta, insieme alle travi del soffitto, quando un boato più forte aveva scosso la casa.
Si portava addosso il terrore, come un vestito stretto, che le opprimeva il torace togliendole il respiro.
Avrebbe voluto urlare, tante volte: quando il fragore delle bombe si faceva più forte, e più forte cresceva la paura, scura, spessa e oleosa come il fumo nero e acre che proveniva dagli edifici incendiati che un tempo erano stati palazzi; quando era rimasta sotto le macerie della casa, avrebbe voluto urlare, prima che le braccia di papà arrivassero a estrarla dalla piccola nicchia in cui l’aveva spinta il crollo.
Avrebbe voluto urlare quando una sventagliata di mitra aveva inciso dei buchi fondi e neri sulle pareti del palazzo già semidistrutto che incombeva sulla via che stava percorrendo di corsa, insieme a mamma.
Avrebbe voluto urlare quando mamma l’aveva presa in braccio, insonnolita, e con papà si erano messi in marcia per scappare via dalle bombe.
Del lungo viaggio ricordava poco o niente.
Più che altro “sentiva”.
Il terrore.
Lo sentiva nei corpi di mamma e di papà, che la tenevano in braccio, una volta l’uno, una volta l’altra, mentre correvano.
E il freddo. Oltre al terrore.
Il viaggio era continuato in mare. Del mare ricordava le onde, scure e gigantesche. E cattive.
E lo sbandamento della barca, ricordava, una volta da un lato, una volta dall’altro.
E ogni volta le grida di quelli che, come lei, ci stavano dentro, alla barca. Ed erano tanti. Una folla intera.
Anche lei avrebbe voluto urlare, ma non poteva. L’abito stretto del terrore le aveva tolto la voce, insieme al respiro.
E il freddo, ricordava. Il freddo che li aveva tormentati in mare, e poi a terra, e poi in quello squallido casermone dove li avevano accolti, e dove si riscaldavano stringendosi gli uni agli altri.
E poi il freddo nella nuova casa. In un palazzo di una grande città sconosciuta dove tutto era nuovo.
Nella nuova casa non arrivava il boato delle bombe, ma i calcinacci cadevano ugualmente dalle pareti, perché l’umidità ne aveva gonfiato l’intonaco, che andava a pezzi. Un giorno dopo l’altro.
Erano appena arrivati nella nuova casa del nuovo palazzo nella nuova città, ma il terrore se lo sentiva ancora addosso. E il freddo se lo sentiva ancora addosso, perché non c’erano i riscaldamenti.
E la voce non riusciva ad uscire, chiusa nel petto insieme al respiro.
Poi, un mattino, al risveglio da una notte gelida, in cui aveva tremato ininterrottamente nel sonno, e perfino nei sogni, mamma l’aveva tirata fuori dal letto.
E la paura era riuscita a urlare.
– No! Non mi portare sul mare! Ho paura.
La mamma sorrise.
– Non ti porto sul mare. Vieni!
La spinse fino alla finestra. Lei si stropicciò gli occhi ben bene. Più volte.
Non era un sogno: quello che stava vedendo non avrebbe potuto sognarlo, perché era qualcosa di sconosciuto.
Tutto era cambiato, intorno.
Tutto era diventato bianco candido.
Il davanzale. Il palazzo di fronte. La strada. Gli alberi. I balconi. I cortili.
Bianchi.
Un bianco immacolato aveva ricoperto ogni cosa, e nel ricoprire ogni cosa, aveva aggiunto a ogni cosa un tocco di rara bellezza.
E nel ricoprire ogni cosa, aveva cancellato da ogni cosa il suono che la contraddistingueva.
Tutto era candido, e improvvisamente silenzioso.
– Vestiamoci – le disse la mamma, e nel dirlo, rideva – e scendiamo!
Si imbottirono rapidamente di tutti gli abiti pesanti che avevano nell’armadio e corsero ad affondare i piedi in quello strato soffice e silenzioso che, come per magia, aveva ricoperto la città, sottraendola al frastuono.
Ogni cosa taceva, tranne il suo cuore, che per la prima volta, dopo tanto tempo, ricominciò a urlare.
E a cantare.
Era la gioia.
Dopo tanto tempo, forse per la prima volta, aveva ritrovato la voce.
La voce della gioia è silenziosa.
Ma urla forte.
Cinzia Micci
Roma