Under 14 – Mio Fratello
Mio fratello
di Riccardo Di Stasi
Tutor: Claudia Marinelli – Scuola: I.C. Parco degli Acquedotti di Roma
Al-Fahad stava costruendo un castello di sabbia quando si avvicina un bambino italiano con la pelle chiarissima e un costume dai colori sgargianti.
“Posso giocare con te?” Gli chiede.
Al-Fahad parla un po’ l’italiano, lo guarda, sorride e distrugge il castello che stava costruendo. Insieme, si mettono a farne un altro, più grande. Li osservo giocare e fare amicizia, allegri e spensierati come tutti i bambini.
“Ma tua madre, vestita così, non ha caldo?Perché non indossa il costume?”
“Mia mamma il costume non lo può mettere. È proibito. Solo i maschi possono. Le donne devono coprirsi in modo che nessun altro uomo possa guardarle. Mia madre non deve attirare l’attenzione di nessuno.”
“Perché? Tua madre è così tanto attraente?”
“Certo! Mia mamma è la più bella del mondo!”
“Non è vero! La mia è la più bella di tutte!”
“No! La mia!”
Il piccolo Al è un bambino tranquillo ma se provocato diventa impulsivo, guai a farlo arrabbiare.
Mi viene in mente mio fratello Rashid e le litigate che facevamo da bambini. Lui era molto più grande di me e sin da piccolo sognava di scappare dalla guerra e dalla povertà in cui vivevamo, alla ricerca di una vita migliore. Ho sempre stimato mio fratello per il suo modo di affrontare ogni situazione e di rimanere sempre calmo, anche nelle occasioni più difficili. Da piccolo, sognavo di diventare come lui, fare le stesse cose che faceva lui e andare dove andava lui. Solo una cosa non volevo fare di quello che ha fatto lui: andare via di casa, allontanarsi dai genitori per andare in un altro Paese. Da piccolo il mondo mi sembrava così bello, anche sotto le bombe. Non capivo proprio perché ci tenesse così tanto ad andarsene e, perché alla fine, se ne è andato.
Intervengo prima che la discussione degeneri.
“Al, vieni qui vicino a me”. Lui corre verso di me lasciando il bambino da solo.
“Sai che mi è venuta voglia di raccontarti una storia? Ti va di ascoltarla?”
“È una favola?”
“No, è la storia di zio Rashid che tu non hai mai conosciuto, mio fratello. Spero che tu un giorno possa incontrarlo”
Agosto 1991
La guerra imperversa qui in città, ormai la vita è troppo dura e non mi resta che scappare. Mi ritrovo ad osservare con meraviglia il cielo stellato, un’ultima volta, prima di partire per un viaggio che probabilmente mi porterà alla morte. Almeno ho una piccola possibilità, sempre meglio che morire per colpa delle bombe.
“Rashid!”
Mia madre mi chiama. Sa che tra poco dovrò andare per sempre. Mi saluta per l’ultima volta. Mi abbraccia. Mi bacia. Mi dice che sono un ragazzo forte e coraggioso e che riuscirò a superare qualunque ostacolo. Poi, scoppia in lacrime. Provo a consolarla. Andrà tutto bene. In realtà, ho più paura di quanto lei possa immaginare, ma non glielo dico, perché sono un uomo e questa è la mia occasione per una nuova vita. Mi mette tra le mani un piccolo fagotto: dentro c’è del pane e un po’ di formaggio. Mi benedice e mi lascia andare.
Mi metto in cammino quando la luna è alta nel cielo. Mi guideranno le stelle verso il villaggio dove incontrerò il favoreggiatore. Impiego tre giorni e tre notti per arrivare a piedi fino al posto stabilito per l’appuntamento. Mi fermo vicino alla moschea e aspetto. E’ quasi mezzogiorno quando noto il furgone bianco e l’uomo seduto al volante. E’ il segnale. Mi avvicino e salgo senza parlare, come mi è stato raccomandato. Rimango stupito nel trovare tante altre persone, perlopiù bambini, stipate in questo spazio chiuso e angusto senz’aria. Alcuni mi lanciano occhiatacce, come se volessi rubare loro altro spazio, altra aria. Mi siedo in un angolino e resto rannicchiato lì per tutto l’interminabile viaggio, pensando, tra uno scossone e l’altro, a quel che avrei fatto appena arrivato in Italia, speravo fortemente di ottenere il diritto d’asilo.
Due ragazzi svengono nessuno se ne preoccupa, nemmeno io, stanco e afflitto. All’improvviso il furgone si ferma e si apre lo sportello. Ci viene dato un secchio di acqua che non è sufficiente per tutti, a cui attingiamo con le mani, molta ne viene sprecata. In questo maledetto viaggio sono ancora solo all’inizio, penso. Il cammino riprende, tra buche, polvere e puzze di noi.
Non so quanto tempo passa e il portellone viene aperto di nuovo e l’autista ci ordina di uscire. Vengo accecato dalla luce intensa del sole, ormai è troppo tempo che i miei occhi si sono abituati al buio.
Mi vengono date delle indicazioni sommarie e concise: proseguire verso Nord attraversando parte del deserto e superando tre villaggi fino al porto di Algeri. Lì devo aspettare un ragazzo che mi darà nuovi ordini. L’autista risale sul furgone e se ne va, lasciandoci nella polvere.
Comincia la marcia della speranza di libertà. Il deserto non ti è amico: non ti dà acqua, né cibo e le tempeste di sabbia mi accecano. Devo fermarmi spesso e stare attento a dove metto i piedi: ci sono tratti del deserto che hanno ancora le mine: mio padre mi diceva di camminare a zig zag nei campi minati.
Miracolosamente arrivo al primo villaggio, spero di trovare qualcosa da bere e da mangiare. Bevo acqua marrone che cola da una specie di fontana. Vedo un cesto di banane. Non penso molto a quel che sto per fare, dato che ho fame, ne arraffo qualcuna e scappo via.
Due ragazzini mi inseguono, urlandomi dietro, ma io sono più veloce e mi infilo in un vicolo. Vado a sbattere contro un uomo grosso e puzzolente. Puzzava più di me. Mi sorride, senza denti, la faccia mostruosamente brutta. Mi fa capire che se gli do tutto ciò che ho, in cambio mi potrà aiutare. Devo andare ad Algeri ma non ho più nulla, tranne la frutta che ho in mano. Mi fa cenno di aspettare. Sono perplesso, impaurito, affamato e stanco. Mi fa capire che ci sono tanti ragazzi come me che aspettano di andare ad “grande porto” e mi accompagna sotto la sua tenda. Ci sono tanti uomini, ragazzi come me, alcuni di villaggi vicini al mio, perciò riusciamo a parlare e ci raccontiamo delle nostre famiglie, dei nostri ricordi, delle nostre speranze. Non so quanti giorni sono rimasto sotto quella tenda con i miei amici ad aspettare, forse giorni, forse settimane, avevo ormai perso la cognizione del tempo.
Finalmente passa un camioncino diretto ad Algeri ma ha posto per due soli. Mi spaccio per un quindicenne, sapevo che i più giovani hanno la precedenza. Così partiamo io e un bambino di otto anni. Arriviamo al porto al tramonto, aspetto fino alla sera, quando vedo un ragazzo basso e barbuto che non mi stacca gli occhi di dosso. Mi fa cenno di avvicinarmi a lui: “Tu devi nuotare?” Era il segnale: lui era il gancio dello scafista. Mi fa cenno di seguirlo, entriamo in un cantiere, ci sediamo per terra, lui lontano da me. Mi addormento, stremato. Improvvisamente qualcuno mi scuote. “Vai, corri!”
Mi alzo stordito e comincio a correre verso la spiaggia, intravedo dei gommoni con tanta gente sopra, chi urla, chi piange, chi silenziosa. Il gommone sta già partendo e io sono stremato, ma corro, corro, corro e riesco a salire in tempo prima di affogare. Qualche braccio amico mi tira su fuori dall’acqua.
I quattro giorni più brutti della mia vita. Credevo di morire, senza acqua e cibo. Ho visto persone morire sotto il sole, ho visto madri disperate, bambini spaventati che non avevano più nemmeno la forza di piangere. Poi, il buio più totale.
Non so cosa sia successo, mi sono ritrovato qui, a Lampedusa, con una coperta addosso. Mi hanno raccontato di avermi raccolto in acqua, che mi credevano morto, che molti erano dispersi. Mi ero salvato ma dovevo restare in quarantena nel centro di accoglienza.
Poi è arrivata quel che credevo fosse la mia libertà: ho cominciato a lavorare in un campo per raccogliere pomodori. Non mi piaceva, ma avevo un letto e qualche soldo. Le condizioni igieniche in cui vivevo erano pessime. Niente in confronto a ciò che avevo passato, ma non era per questo che avevo attraversato il mare. Io volevo essere libero, anche di scegliere.
E’ per questo, caro fratello, che ho scelto di cambiare. Ora sono un uomo libero. Ti scrivo perché tu possa essere fiero di me. Spero di incontrarti presto.
2016
“Ma allora la storia che hai raccontato è davvero successa?”
“Si. La storia di Rashid era nell’unica lettera che ho ricevuto da lui, nel 1995. Proveniva da Londra. La sua storia mi fa spesso riflettere…”
“Su cosa?”
“Sul fatto che l’uomo cerca sempre il meglio per sé, illudendosi di guadagnare la libertà. Penso che solo il coraggio ci renda veramente liberi, oppure l’incoscienza…”
Mentre parlavo, il bambino bianco aveva finito il suo castello di sabbia.